
‘E poi Barbara incontra Alan’
Un film da vedere assolutamente, solo su Netflix.
È un ottimo film, non un capolavoro destinato a restare nella storia del cinema ma è uno di quei film che parla di persone, di essere umani e che spinge a riflettere. È una bella chiacchierata con qualcuno che offre un punto di vista diverso, come un alito di vento che fa respirar la mente.
Il cinema è ricco di produzioni che affrontano il tema della disabilità. Molti fortunatamente, meritano di essere visti, “E poi Barbara incontra Alan” è uno di questi. Tanti sono gli aspetti affrontati che riguardano la lotta contro le discriminazioni, quelle di tutti i giorni: non poter prendere un autobus, l’accessibilità, le discriminazioni professionali, le fragilità culturali ed economiche, la deprivazione materiale, la partecipazione sociale, l’accesso all’istruzione e molto altro. Insomma, parliamo di diritti, quei diritti garantiti ad alcuni e ad altri no.
Se volessimo ridurre a due gli ambiti di questa quotidiana lotta, il film vuole mettere in risalto le differenze tra i contesti culturali e il riconoscimenti dei propri diritti, proprio perché tremendamente collegate tra loro, ma non del tutto: sì perché quando l’aspetto culturale non viene tutelato e promosso, la lotta per il riconoscimento dei propri diritti è l’unica strada percorribile, anche attraverso la disobbedienza civile, forse un po’ strampalata, ma pur sempre giusta e civile.
Guardando il film, torna alla mente il brillante messaggio lanciato dal movimento #Wethe15, che ricorda che i disabili rappresentano il 15% della popolazione mondiale -oltre un miliardo di persone-.
Il video della campagna, descrive alla perfezione questo concetto. Perché quando ci si rivolge a un disabile si sente spesso ripetere: ‘tu mi dai la forza…’, ‘sei d’ispirazione per gli altri…’,’ sei così coraggioso, mi ricordi di essere felice..’; e la risposta che il disabile da in questo caso, recita: ‘Quindi, mentre i piedistalli sono belli e la pietà tollerata… Noi non siamo speciali, questa è la nostra realtà. Ed è solo quando ci guardi come uno di voi, meravigliosamente ordinari e umani, che potremmo abbattere queste barriere che ci tengono separati.‘
Questo è l’aspetto culturale che si vuole affrontare. Ma, davanti all’impossibilità di aspettare (provare per credere), dalla lotta contro discriminazione inglese alla prima apertura legislativa italiana (2006), sono passati tanti anni. Ma c’è da credere: non è cambiato molto. Perché la vita nel frattempo è andata avanti, l’umanità si è evoluta (questo ci hanno insegnato), ma non per tutti (questo l’abbiamo imparato).
Tanti anni di grida inascoltate, di sguardi voltati. Parole e parole che riempiono salotti (televisivi e non), programmi elettorali, ecc. Basta guardarsi intorno, senza andare troppo lontano, dal corrente allo straordinario assistiamo a un welfare risarcitorio che agisce quotidianamente erogando milioni e “servizi collegati”, garantendo addetti e posti di lavoro, la sussistenza di organizzazioni socio-politiche e tanto altro ancora.
Tutto questo rende chiara questa realtà composta da una società stracolma di ipocrisia che non considera tutte le persone come tali. Al contrario, promuove la carità – per carità! – e a furia di offrirla, finisce per generare rancore e rabbia nella testa e nel cuore di chi in quel posto non può entrare, di chi che con quel mezzo di trasporto non può accedere, e per questo non può partecipare…
Dopotutto, sono passati circa 30 anni dai subbugli inglesi che avevano un messaggio chiaro: “Diritti, Non Carità. Nessuno deve poter scegliere per noi.” E all’impossibilità di una cultura inclusiva e paritaria loro rispondevano: ‘Che le persone vogliano cambiare o no, i disabili hanno il diritto di appartenere a ogni minimo aspetto della società. Noi vogliamo arrivare dove sono stati già tutti gli altri, e mandare a fare in culo la pietà.’
Diritti, non carità.
Se non l’hai ancora fatto, iscriviti gratuitamente a Propizio.
Resterai informato su tutte le novità relative al mondo della disabilità!
Articoli più letti


